Jean Salem

Domenica 14 gennaio 2018

Oggi è morto il compagno Jean Salem, professore di filosofia, militante comunista, infaticabile difensore del marxismo-leninismo, dell'internazionalismo proletario e della storia della costruzione del socialismo, specialmente nell'URSS.

Nato in una famiglia di attivisti del Partito Comunista algerino, si confronta con la realtà del colonialismo e la politica dell'imperialismo francese fin da bambino: ogni giorno è testimone del razzismo e della miseria di cui le masse sono vittime; suo padre, Henri Alleg, fu arrestato, torturato e gettato in prigione per ordine del governo francese.Entrato nell'università sceglie gli studi di filosofia, che si completeranno con studi di storia, scienze politiche, storia dell'arte, in inglese, economia, letteratura e civiltà francese, inglese, medicina.

Divenuto attivista del Partito Comunista, nel 1976 si oppose alla discussione sul XXII Congresso del PCF, sull'abbandono della dittatura del proletariato e sulla deriva antisovietica.
Nel dicembre 1981 ha partecipato all'elaborazione della prima lettera al Comitato centrale: primo tentativo di riunire attivisti CPF che volevano rimanere rivoluzionari.

Nel 1985 ha pubblicato sotto uno pseudonimo Notes sur la représentation des pays dits de l’Est tra l'élite colta del popolo più spirituale del mondo, contro l'antisovietico furioso, libro ristampato sotto il suo nome da Editions Delga. Aiuterà Jeannette Vermeersch a scrivere il suo libro di ricordi, La Vie en Rouge.

Professore alla Sorbona, terrà due seminari, uno sulla storia del materialismo (1998-2008) e l'altro su Marx nel XXI secolo: lo spirito e la lettera.
Il suo libro Lenin and the Revolution, tradotto in molte lingue, è una buona introduzione alla lettura di Lenin e ben colloca il posto fondamentale che lo studio di esso occupa per il recupero del movimento operaio rivoluzionario, e l'elaborazione di la strategia rivoluzionaria a venire.

Si è impegnato, tra le altre cose, per la solidarietà con il popolo della Corea per la riunificazione della sua patria e con i democratici e le progressiste vittime della repressione del governo sudcoreano.




Leggere Marx a Parigi: lo spirito e la lettera. Intervista a Jean Salem
a cura di Salvatore Prinzi

Maggio 1968: gente frenetica e dappertutto, barricate nel quartiere latino, il boulevard Saint-Michel senza più pavè. Gli alberi sradicati e per terra, a sostenere i pannelli pubblicitari divelti da giorni. Il rumore è di sassi, di molotov e grida: la polizia antisommossa chiude le strade e manganella a caso, la storia sembra farsi a ogni minuto, ogni slogan un'interrogazione trattenuta sulle labbra. La Sorbona è occupata dagli studenti, aperta a tutti da mattina a sera, fra riunioni politiche, iniziative di controinformazione, seminari autogestiti. Giovani operai, vecchi militanti del PCF, abitanti del quartiere, casalinghe e artisti la attraversano un po' alla cieca, chi per dare una mano, chi per capire o criticare, chi per fare fronte comune davanti alla repressione. I nemici per tutti hanno nomi precisi: la borghesia, i padroni, il capitale, l'imperialismo. E nell'esplosione di sette e gruppuscoli di tutti i tipi, nella proliferazione di maoisti, trotskisti e stalinisti in lotta fra loro per stabilire chi è il più fedele servitore della causa proletaria, qualcuno già scrive sui muri: “Io sono marxista, di tendenza Groucho”.
Quarant'anni dopo - le barricate sostituite dai ristorantini per i turisti, il pavè di Saint-Michel diventato un più sicuro asfalto - per entrare alla Sorbona, bisogna innanzitutto esibire i documenti. Carta studenti, un certificato di qualche biblioteca, autorizzazioni o lettere di qualche professore che vi lavora: senza nulla in mano, inutili le discussioni con i vigili all'ingresso. E mentre sul sito ultra-istituzionale della Sorbona invece della rabbia e della lotta politica si celebrano le allegre gesta dei giovani sessantottini, le “nuove combinazioni di parole, le idee folli, generose e utopiche”, il piano di Georges Lapassade, i colori, e insomma “la festa”, chi si iscrive oggi in quest'università difficilmente potrebbe trovare anche solo l'eco di quello spirito irrispettoso di denuncia e contestazione.
Per non parlare di un testo di Marx nei programmi di esame. Fra Kant, Hegel e Heidegger, fra una spruzzata abbondante di fenomenologia e qualche ricordo della stagione strutturalista e decostruzionista, passando per la nuova moda di una filosofia analitica in salsa francese, il filosofo tedesco non si incontra nemmeno per sbaglio. Abbandonato qualsiasi progetto di critica dell'ideologia, qualsiasi analisi “sospettosa” del reale, le nuove leve della filosofia d'oltralpe crescono - esattamente come da noi - con un altro vocabolario, e con un'idea quantomeno vaga dei problemi posti da un pensiero emancipativo. Così, alla fine, nella Sorbona pacificata di oggi non ci sono più né i marxisti né i grouchisti, né la serietà della tragedia, né l'irriverenza della farsa.
Si rimane sorpresi dunque, nel trovarsi di fronte, proprio qui, nientemeno che un intero ciclo di seminari dedicati a Marx nel ventunesimo secolo: lo spirito e la lettera. C'è qualcosa che non torna, ci si dice: che fra quei muri secolari, nel dedalo dei suoi passaggi, ci sia rimasto asserragliato qualcuno di quei sessantottini? Evidentemente dev'essere così, perché per il terzo anno consecutivo il professor Jean Salem, avvalendosi della collaborazione, fra gli altri, di Stathis Kouvelakis, Vincent Charbonnier e Isabelle Garo, e del supporto della rivista «ContreTemps», ha messo su un tale spazio critico, dove il pensiero di Marx è evocato attraverso i suoi tanti interpreti ed epigoni.
Scorrendo infatti gli incontri del seminario, ritroviamo un po' tutti i nodi teorici e le figure del marxismo, ripercorsi da commentatori sia francesi che europei alla luce dei problemi oggi più pressanti. Si va infatti da temi più generali – da Slavoj Zizek che parla di Stato d'emergenza e dittatura rivoluzionaria, a Isaac Johsua con la sua relazione sullaRivoluzione secondo Marx: la classe di troppo, da Stephen Bouquin con la sua analisi della Resistenza e acquiescenza nelle imprese di oggi, a Georges Labica che abbozza una Teoria della violenza, mentre Quentin Meillassoux illumina i concetti di Storia ed evento – fino a delle letture più specifiche, come quella di Olivier Pascault sul rapporto fra ilMarxismo e la questione letteraria, di Isabelle Garo sulla Rottura impossibile di Althusser, di Patrick Gaud su Sorel e la critica del marxismo, di Vincent Charbonnier su La reificazione da Lukács a Honneth, e di Raymond Huard e Jean Ducange Su “Il 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte”; in programma c'è anche una lezione di Luciano Canfora su La democrazia e i suoi critici. Gli anni passati sono stati invece invitati André Tosel, Domenico Losurdo, Lucien Sève, Michael Krätke, Fabio Frosini, Alberto Toscano, Michel Husson, Claude Mazauric, Daniel Bensaïd...
L'obiettivo di tale seminario è, come si vede, riportare un certo pensiero critico nell'odierno dibattito culturale, non per un'operazione accademica di imbalsamazione, al contrario: per rilanciarlo nel nuovo secolo. Tre anni fa gli organizzatori hanno provato a spiegare le ragioni, per nulla scontate o meramente ideologiche, di questa operazione. Dire che il pensiero di Marx è ancora vivo - affermano - non può rimanere una dichiarazione astratta e senza conseguenze: la sua iscrizione nell'albo dei classici non può avvenire senza un certo urto con la tradizione, urto che porta a ridefinire tutta la costruzione tranquillizzante della storia della filosofia. È solo un lavoro d'esplorazione e d'invenzione che può mantenere vivo il pensiero di Marx, ed è per questo che il seminario tenta di porsi come luogo di dibattito, di scoperta e di confronto. Si tratta di seguire i testi con il più grande rigore storico e filologico, sviluppando tutti i temi affrontati dal pensatore tedesco, oltrepassando le rigide divisioni disciplinari, misurando le riflessioni sociologiche, economiche e storiche, sulla loro portata pratica.
Mettere in piedi un seminario di questo tipo - continuano gli organizzatori nella loro presentazione – vuol dire proporre un atteggiamento offensivo, di iniziativa, e non nostalgico o di mera testimonianza, di fronte al pensiero dominante. Rigettando gli anatemi, e sconvolgendo evidenze che ogni volta si pretendono eterne, lo scopo è confrontarsi con tutte le idee del presente, con tutte le correnti del pensiero contemporaneo. A questo allude il titolo del ciclo seminariale:Marx nella sua lettera, ovvero letto e spiegato nel suo contesto, secondo le sue intenzioni, e nel suo spirito, ovvero nel suo impensato, in quello che resta da fare per comprendere meglio il presente, rilanciando nella pratica una filosofia che non si limiti a comprendere il mondo après coup, ma che miri addirittura a cambiarlo.
Increduli di fronte a tutto questo coraggio, decisamente inattuale in senso nietzscheano, siamo andati a fare qualche domanda a Jean Salem, il coordinatore del seminario. Nato nel 1952, Salem dirige il “Centro di storia dei sistemi moderni di pensiero” e insegna “Storia del materialismo filosofico” a Paris I. Studioso del pensiero antico, sul quale ha scritto libri molto apprezzati e tradotti in diverse lingue (fra gli altri: L’Atomisme antique. Démocrite, Épicure, Lucrèce,Le Livre de Poche, 1997; Le Bonheur ou L’Art d’être heureux par gros temps, Bordas, 2006; Cinq variations sur la sagesse, le plaisir et la mort, Michalon, 2007), autore di un interessantissimo Lénine et la révolution (Michalon, 2006), Salem ha pienamente confermato la vocazione del seminario da lui diretto, se non altro perché si è prestato con generosità alle nostre domande un po' impertinenti.

Partiamo proprio dal seminario che avete messo in piedi tre anni fa, e che sembra ormai ben rodato. Nonostante l'abbiate spiegato milioni di volte, vorremmo tornarci ancora su: qual è il senso di proporre oggi Marx nelle università? Qual è lo scopo del vostro lavoro, in particolare alla Sorbona?

Be', bisogna dire che il punto da cui partiamo è quello di una disfatta di ampie proporzioni. Penso a tutti quelli della mia generazione che sono passati dalla rivoluzione alla capitolazione più vergognosa, al vuoto teorico di questi decenni... Penso al libro di Hobsbawm, Il secolo breve, tradotto in Francia solo nel '99, perché sospettato di marxismo in un clima niente affatto favorevole. Hobsbawm stesso ne parla, nella prefazione del testo, citando la presenza di un certo “antimarxismo astioso” fra gli intellettuali francesi... Dieci anni fa, quando ai miei corsi iniziavo a parlare di Marx, i ragazzi posavano la penna e smettevano di prendere appunti, come se stessi dicendo cose senza importanza, che comunque non riguardavano i loro studi. Adesso però mi sembra di vedere rinascere di nuovo l'interesse verso un pensiero critico, e se ci allontaniamo dall'Europa, possiamo parlare di una vera e propria riscoperta di Marx.
Io ho avuto la fortuna di incontrare delle persone disinteressate, disposte a mettersi in gioco al di là delle convenienze personali e degli impegni accademici, ed abbiamo potuto organizzare insieme un seminario bimensile che vede ogni volta la partecipazione di cento, duecento persone, fra studenti, lavoratori, professori, vecchi militanti. Al di là di ogni ristretta logica di scuola o di tendenza, è un seminario veramente aperto a tutti quelli che si interessano al pensiero marxista. Non è assolutamente ammissibile che un pensiero così ricco sia a tal punto rimosso dal dibattito culturale: bisogna attivarsi e reagire.

E l'avete fatto! Sarà una piccola cosa, ma la Sorbona è forse l'Università più controllata d'Europa... Come siete riusciti a convincere gli onnipresenti vigili a far entrare le persone sprovviste della mitica carta studenti?

Bisogna dire che anche qui scontiamo le conseguenze dell'11 settembre. È da allora che, con il pretesto di possibili attentati terroristici, il controllo è diventato sempre più opprimente. Persino i professori devono mostrare la loro carta all'ingresso. In realtà questo controllo si è rivelato quanto mai utile nel caso del movimento contro il CPE¹ del marzo 2006, o dell'ultimo movimento contro la LRU² di questo inverno. In questo modo tentano di impedire l'ingresso a tutti quelli che potrebbero dare manforte ad un'eventuale occupazione universitaria. Per quanto riguarda i vigili, è chiaro che sono lavoratori: spesso ci si può parlare, sono cortesi e professionali, non hanno nessun piacere a impedirci i movimenti. Ma è anche vero che la Sorbona in periodi più turbolenti si affida a compagnie private che sono decisamente meno corrette... Comunque, ad insistere, si possono superare anche questi limiti pratici, basta avere la volontà e la convinzione. Ovviamente anche chiamare personalità prestigiose, studiosi riconosciuti o professori capaci aiuta molto.

È importante che le iniziative culturali di questo tipo, proprio come le lotte, comunichino. E non è solo una questione di darsi visibilità e sostenersi a vicenda: si tratta soprattutto di dotarsi, scambiandosi le esperienze, degli strumenti più efficaci, quelli che più hanno dimostrato di funzionare. Quali sono stati i vostri passaggi organizzativi? Come avete messo su, concretamente, questo seminario?

Sicuramente l'isolamento e la solitudine rappresentano il primo problema da superare. Per un lungo periodo, più che marxiani ci siamo sentiti marziani, spaesati in un mondo divenuto straniero. La prima cosa è dunque il collegamento, e il seminario dispone di un ottimo sito internet³, dove si possono scaricare le relazioni e persino i video delle sessioni, ma anche molti altri testi su Marx, sul marxismo, su questioni di attualità, lette da un punto di vista critico. C'è in più la possibilità per tutti di pubblicare degli interventi, e questo consente di continuare quei dibattiti e chiarire quei punti che nel seminario restano insoluti. Purtroppo, anche se i miei colleghi lavorano 18 ore su 24, non siamo ancora in grado di tenere un forum, ma la nostra mailing list è uno strumento molto importante, e cerchiamo di assicurare subito una risposta a chiunque ci contatti.
Inoltre abbiamo creato un'Associazione degli amici del seminario, per cercare di sostenerlo contro eventuali attacchi – c'è infatti chi cerca di impedirci di esistere in una sede così prestigiosa –, per facilitare le relazioni burocratiche con le istituzioni, e per coinvolgere altre persone che magari sono lontane ma vogliono comunque contribuire. Così le nostre iniziative arrivano in tutta la Francia: anche negli altri atenei e scuole superiori appendono le nostre locandine. Altra cosa che stiamo cercando di fare, è di istituzionalizzare il seminario, inquadrarlo in un percorso di studi, in modo d'assicurarci la sua continuità nei prossimi anni, e d'incentivare l'arrivo degli studenti - sebbene pensiamo debba restare qualcosa di diverso da un seminario strettamente accademico, dove alla fine del corso la gente dice “grazie” e se ne torna a casa.

Siete soddisfatti dei risultati in termini di partecipazione? Non parliamo solo dei numeri, ci chiediamo piuttosto se il seminario arrivi davvero a “parlare”, se non resti astratto o una nicchia per soli esperti. Pensa ci sia un ritorno effettivo su chi vi viene a seguire?

Basterebbe vedere i dibattiti infiniti che si scatenano dopo i seminari, soprattutto fra vecchi militanti, per capire che una partecipazione reale c'è. Ed è anche bene che sia allo stesso tempo determinata ma non settaria, e che coinvolga dei ragazzi su questioni che spesso ignorano, perché troppo giovani per ricordarle. Per quanto riguarda le conseguenze più politiche, credo che un ritorno sui partecipanti ci sia, ma non spetta certo a me, in quanto professore o operatore culturale, sviluppare questo tipo di lavoro. Certo è che molti dei ragazzi impegnati nel movimento universitario, sia nel 2006 che quest'inverno, venivano già, o son venuti poi, a frequentare i nostri incontri, e noi li abbiamo sostenuti spesso nelle loro battaglie contro la propensione dell'amministrazione della Sorbona a far intervenire le forze dell'ordine all'interno della facoltà o di impedirne l'accesso con ogni pretesto. Comunque questo seminario aiuta a cementare le relazioni anche fra noi organizzatori: penso al lancio ufficiale del progetto GEME, la Grande Edizione delle opere di Marx ed Engles, un'analogo della MEGA² 4 in francese, che è reso finalmente possibile dalla collaborazione delle persone che si sono impegnate proprio nel percorso seminariale.

Proprio a questo riguardo, qualche anno fa in Italia abbiamo avuto un gran dibattito sulla MEGA². C'era chi si dichiarava estremamente entusiasta di quest'operazione che permette finalmente di leggere tutti i testi senza censure o interpolazioni, e chi è rimasto un po' freddo di fronte ad un'operazione che ha definito meramente filologica, che aggiunge poco alle nostre conoscenze e soprattutto alla nostra capacità d'intervento politico5.Qual è la vostra posizione al riguardo?

Bisogna innanzitutto dire che la Francia è forse il solo paese con una lingua di larga diffusione a non avere mai avuto un edizione d'insieme delle opere di Marx ed Engels. Le Éditions sociales del PCF erano riuscite a coprire meno dei due terzi dell'opera totale, e comunque non si può dire che il lavoro fosse esente da imperfezioni. Io stesso ho curato dieci anni fa un'edizione dei Manoscritti del 1844 per Flammarion, sulla scorta delle nuove indicazioni critiche, e mi sono accorto di quanto alcune delle precedenti versioni fossero poco rigorose. Qui non è una questione meramente filologica: come Lenin ricordava, da una cattiva lettura vengono degli errori teorici, e dagli errori teorici gli errori pratici. Marx stesso, che parlava benissimo il francese, quando lesse la traduzione del primo libro del Capitale non vi si riconobbe. La questione della scientificità del testo è dunque ineludibile. Ovviamente bisogna cercare una strada che renda quest'edizione aperta ad un pubblico più largo possibile, non solo agli specialisti, ma anche agli studenti, ai lavoratori, ai militanti. Comunque viviamo nel deserto, ed iniziative come queste capitano bene, perché vengono a riproporre testi ormai introvabili, e a sostenere e incoraggiare la circolazione del pensiero marxiano. Certo, non bisogna sovrastimare l'importanza politica dell'operazione, ma mi sembra insomma che sia molto utile ed abbia un valore scientifico innegabile.

Un deserto... veramente è questa la situazione del marxismo in Francia? Almeno qui si può ancora assistere a dei grandi congressi internazionali, come quello di ottobre organizzato a Nanterre da Actuel Marx, mentre in Italia è sempre più difficile...

Chiaramente i dibattiti marxisti oggi pagano un po' dovunque il peso dell'isolamento e dello scoramento: quello che l'ideologia dominante ha cercato di fare è cancellare il sentimento della lotta comune, della ricerca, del mettersi insieme. Riunire cento, duecento, anche trecento persone in un seminario può essere già il primo passo per riprendere le fila di un discorso. Ma tutto sommato i paesi in cui il pensiero marxista mi sembra ancora vivo, sebbene un po' emarginato, sono l'Italia e la Francia. Lì, sarà perché li conosco meglio, c'è una tradizione più sedimentata e una maggiore vivacità. Poi personalmente sono anche attratto dalla situazione attuale dell'America Latina, paragonabile per certi aspetti a quello che vivevamo nell'Europa del 1971-72. Questo non vuol dire che ci si debba disinteressare ai fatti di casa nostra, ma là ci sono molte situazioni intollerabili dal punto di vista dell'imperialismo, e quindi bisogna tenerle in gran conto. È soprattutto per progettare il futuro che il pensiero di Marx si rivela quanto mai vivo.

Voi parlate di Marx nel XXI° secolo: state forse dicendo che non è semplicemente un “classico” del pensiero filosofico?

Io sono convinto che Marx sia più contemporaneo oggi che trent'anni fa. Prendiamo per esempio il Manifesto del partito comunista. Mi ricordo che quando lo lessi per la prima volta chiesi a mio padre: che vuol dire la concorrenza fra gli operai? Cioè, la concorrenza fra capitalisti, interna alla borghesia, quella si capisce, ma in un'epoca di sindacati forti, di classe operaia ben organizzata, di stato “sociale”, la concorrenza fra i lavoratori non appariva proprio evidente... Oggi invece, qualsiasi giovane precario lo capisce alla prima lettura: se non sei contento, e magari protesti, ne trovano un altro al tuo posto. Ancora, penso a quando Marx parla della prostituzione diffusa nella classe operaia: non era un fenomeno di massa negli anni '60. Ma oggi, dopo che dalla grande “liberazione” dell'89 più di quattro milioni di donne dell'Est sono state letteralmente vendute, è evidente quello che Marx diceva, no? Insomma, ci sono molte cose che possiamo trovare in Marx e che certo dobbiamo affinare, adattare ai nostri tempi. Ma io credo che il marxismo sia rimasto la filosofia insuperabile della nostra epoca.

È forse per questo che accennate allo “spirito” e alla “lettera”... Però voi dite che bisogna staccarsi dal testo sacro, che non c'è utilizzo di Marx che non sia creativo, e poi rimanete alquanto attaccati alla “lettera”, pare. Dobbiamo dunque fare ancora i conti con le vecchie categorie, come quella di “classe”? Non sono più affascinanti i nuovi teorici della radical democracy che ci parlano invece di “identità”, o di “moltitudini”?

Penso che si possa parlare solo per scherzo della fine della classe operaia, dal momento che la Cina e l'India, che contano quasi la metà della popolazione umana, sono diventate le fabbriche del commercio mondiale. Quindi nel mondo qualche operaio ci dovrebbe essere ancora, no? Senza contare gli immigrati che lavorano, spesso clandestini e quindi invisibili, in Europa o negli Stati Uniti. Altri tipi di concetti mi sembrano alquanto vaghi... In realtà questo tipo di riflessioni sono il frutto di una prospettiva eurocentrica, che è a sua volta il prodotto dello sfruttamento coloniale di cui indubbiamente ha goduto anche la classe operaia nostrana. La socialdemocrazia le ha concesso le briciole – certo, a volte anche in abbondanza - ed ha impedito così l'esplodere di una vera e propria rivoluzione in Europa, salvando le strutture capitaliste fortemente contestate da correnti politiche allora ben organizzate.
Si rideva negli anni '60 quando si parlava della pauperizzazione assoluta della classe operaia, con le famiglie dei lavoratori americani che avevano due automobili ognuna. Salvo risvegliarci oggi con un mondo insostenibilmente squilibrato nella distribuzione di risorse, e con una classe operaia che persino in Occidente si pauperizza sempre di più, con un potere d'acquisto ormai ridicolo.
Insomma, malgrado la distruzione della scuola di massa, della sanità pubblica, dell'eredità delle lotte, c'è ancora qualcosa che fa riconoscere spontaneamente un operaio francese e uno italiano quando si incontrano. Hanno fondamentalmente gli stessi interessi, nonostante le differenze di vite, di abitudini...

Sì, però in Italia si dice che i voti degli operai vadano sempre più alla destra, xenofoba o populista... La stessa cosa avviene in Francia. Non hanno dunque ragione questi teorici che dichiarano la morte della classe, se evidentemente i lavoratori vanno contro i loro stessi interessi?

È chiaro che c'è un vuoto a sinistra che viene occupato dall'estrema destra, che ha sempre fatto sue delle rivendicazioni a carattere demagogico. Ma quando ci sono ancora manifestazioni che raccolgono migliaia di persone, quando sono aperti dappertutto conflitti legati alla dinamica di classe, quando ovunque si può leggere un malcontento complessivo, va da sé che ci sia uno spazio per un'azione di sinistra, anche se queste espressioni di protesta non hanno nell'immediato una chiara impostazione politica. Che la sinistra non sia in Parlamento è una congiuntura, può essere una situazione provvisoria... Per il momento vuol dire solo che per qualche anno sparirà dal punto di vista elettorale, o dai salotti televisivi. Ma che viva nelle piazze e nelle lotte, questo ci dice che è là, che esiste ancora.

Ma esiste davvero, dal momento che il neoliberismo è riuscito a imporre dovunque il terreno di battaglia, le regole di ingaggio, e persino il suo linguaggio?

Evidentemente, a partire dalla caduta del muro di Berlino una certa ideologia è letteralmente dilagata, e di sicuro la borghesia ha preso rispetto a noi un paio di decenni di vantaggio... Questo la mette in una posizione forte, di dominio, che l'informatizzazione e nuovi strumenti di oppressione hanno rinsaldato. L'abbandono di un linguaggio che tenti di dire le cose come stanno davvero è una responsabilità della sinistra ufficiale, in tutti i paesi europei, e purtroppo è un processo ancora in fieri. È incredibile quanto i partiti di sinistra abbiano mutuato dalla destra i modi di pensare, quanto ormai abbiano i loro stessi riflessi. Il mio amico Domenico Losurdo parla di “autofobia”: la sinistra ha introiettato il punto di vista del suo avversario, si fa paura da sola, vive nel senso di colpa. Se mi posso permettere, le recenti elezioni italiane ci insegnano una sola cosa: non si deve negoziare sul fondamentale. Più che scusarci per quello che siamo stati, dovremmo “divenire quello che siamo”.

La situazione è da questo punto di vista invertita rispetto all'inizio dei movimenti socialisti: saremmo gravati più dalla storia passata che dalle responsabilità future?

Appunto: la cosa più inquietante è la frattura fra le generazioni, il fatto che per la prima volta, in uno spazio di tempo brevissimo, le condizioni materiali di vita si siano così degradate. E che noi siamo diventati incapaci di capire la rabbia e la protesta che genera questo peggioramento in chi lo subisce sulla propria pelle. Io stesso ho visto dei colleghi rispettabilissimi, degli ex-comunisti, chiamare la polizia, spingere e insultare gli studenti che scioperavano bloccando l'accesso alla facoltà. Per non parlare della situazione nelle banlieue... Fortunatamente, la marcia del mondo è anche una marcia crono-biologica, e i miei coetanei devono riconoscere che c'è una nuova generazione che sta arrivando, e a lei dobbiamo rendere conto. Il consenso neoliberista degli ultimi venti, trent'anni, appartiene a quelli che lasceranno presto la scena, e sarà sempre più contestato negli anni a venire, anche nella vecchia Europa. Ne abbiamo già avuto un assaggio con il movimento altermondialista

Il comunismo come giovinezza del mondo, direbbe Vaillant-Couturier...

Sì, se la giovinezza sa esserne all'altezza. Mi permetto di raccontare un aneddoto personale. Mio padre, Henry Alleg, era un militante comunista franco-algerino, direttore dell'Alger républicain. Nel '55 il suo giornale, di tendenza progressiste, fu chiuso dall'amministrazione francese a causa del suo sostegno alla battaglia di indipendenza. Due anni più tardi mio padre fu arrestato e torturato. Ha visto in faccia la morte, e ciononostante ha rifiutato di parlare. Maurice Audin, un compagno del partito che gli aveva dato ospitalità, fu anche lui torturato, a morte. Io non dico che bisogna avere per forza quest'eroismo - forse non tutti ne siamo capaci - ma almeno un po' di resistenza, di coraggio, di disciplina. Bisognerebbe riprendere quello slancio che permette di ingaggiare il combattimento. Lo ripeto: non vuol dire per forza essere disposti a sopportare la tortura o a sacrificare la vita, ma almeno tenere sul fondamentale, essere capaci di scegliersi un altro destino. Non vendersi al primo offerente, alla prima convenienza personale...

Mica facile, dopo il crollo di qualsiasi progetto di trasformazione radicale dell'esistente!

Per niente facile, perché la sconfitta è stata immensa. Quando mio padre è stato condannato a dieci anni di prigione, da uno stato che si diceva democratico, per il semplice fatto di essere un giornalista che denunciava la verità, noi ci siamo rifugiati in Cecoslovacchia, poi in Unione Sovietica. Però quello che sto per dire non viene da un legame affettivo, non è dettato dal fatto che lì ci hanno accolto a braccia aperte. Forse alcuni miei amici del seminario non saranno d'accordo, ma io penso che la presenza di un campo socialista, pur con tutti i suoi limiti, abbia impedito il dilagare dell'imperialismo, il disfacimento delle condizioni di vita dei lavoratori occidentali, la distruzione del sistema pubblico, che abbia comunque posto l'idea di una vera alternativa alla ricerca spregiudicata del profitto. Se quel mondo è collassato non è certo solo per limiti interni, visto che Reagan, lanciando la campagna di armamenti, lo disse chiaramente: “andiamo a mettere in ginocchio l'Unione Sovietica”. Anche chi dopo l'89 gioiva o almeno, come il mio amico Daniel Bensaïd, non si disperava per la fine di quel sistema, adesso deve riconoscerne le devastanti conseguenze per i movimenti sociali.

Dobbiamo dunque rispondere ad una fine, assumere una precarietà. Ci sta proponendo una sorta di allegria di naufragi, come direbbe Ungaretti?

Be', lo scoramento, il senso di abbandono, sono sentimenti che capisco bene: non sono per nulla una persona gioiosa o spensierata. Le energie a volte vengono meno, è normale. Ma non ci sono alternative: è solo quando non si lotta che ci si sente stanchi o depressi.

E allora che fare? Come riprendere in questo contesto un progetto di articolazione egemonica? Come arrivare a porre le nostre questioni e le nostre parole all'ordine del giorno?

Resistendo e organizzandosi, il che può essere già tanto. Rifiutando di accettare tutto, come è stato negli ultimi vent'anni. Proponendosi attivamente in ogni luogo di lavoro, di studio.
Credo sia essenziale ricordarsi che le cose a volte sono molto più veloci di quanto si crede. Il giorno prima del '68 non ci s'immaginava nemmeno lontanamente quello che sarebbe successo. Su un foglio anonimo messo nei bagni del liceo feci firmare contro la guerra in Vietnam ventritre persone sulle tremila che ne contava l'istituto. Poco tempo dopo quegli stessi fogli raccoglievano pubblicamente migliaia di firme, e chiunque cercava di iscriversi in un gruppo maoista o trotskista o comunista “ortodosso”... Insomma, credo che le cose a volte vadano molto veloci. Non so dire quando e come, e nemmeno dove succederà. Probabilmente non sarà in Europa - ma fortunatamente il mondo è ben più grande. Il neoliberismo può raccontarci molte cose, la sua egemonia può durare ancora dieci, trent'anni... Ma sono certo che ci sarà molto da vedere negli anni a venire. L'epoca che si prepara sarà sicuramente meno noiosa.



1. Contrat Première Embauche, ovvero “Contratto di primo impiego”, provvedimento legislativo proposto all'inizio del 2006 dal governo di destra Chirac-de Villepin, e subito ritirato in seguito alla dura protesta, durata tre mesi, di studenti e lavoratori.

2. Loi relative aux libertés et Responsabilités des Universités, detta anche “Legge sull'Autonomia delle università” o “Legge Pécresse”, dal nome del Ministro dell'Insegnamento Superiore e della Ricerca del governo di destra Sarkozy-Fillon. Proposta nell'agosto del 2007, ha incontrato nell'ottobre-dicembre successivo la forte protesta di studenti, professori e ricercatori francesi. Inquadrandosi nel Processo di Bologna (1999) – processo teso ad armonizzare l'istruzione superiore dei paesi UE secondo paradigmi neoliberali – la legge viene contestata perché, fra le altre cose, prevede il taglio dei finanziamenti statali alle università e incentiva i rapporti fra atenei e imprese.

3. http://semimarx.free.fr. Cfr. anche: www.contretemps.ras.eu.org e http://chspm.univ-paris1.fr.

4. Marx-Engels Gesamtausgabe, ovvero l’opera omnia di Marx ed Engels, a cura della Fondazione Internazionale Marx Engels (Imes). Prevista in 114 volumi - finora ne sono apparsi circa 50 - la sua pubblicazione è iniziata a Berlino negli anni '70; interrotta dal crollo dei paesi socialisti, è poi ripartita nel 1998. Il simbolo “²” sta a indicare che si tratta del secondo tentativo di pubblicazione completa delle opere di Marx ed Engels, dopo quello sovietico degli anni '30, a cura di David Rjazanov, che peròlasciava fuori molti materiali, oltre a selezionare e disporre il testo in modo più arbitrario.

5. Cfr. a cura di A. Mazzone, Mega²: Marx ritrovato, grazie alla nuova edizione critica, Mediaprint edizioni, Roma 2002.

Nessun commento: