
Per anni si è pensato che dietro al terrorismo rosso italiano potessero nascondersi le trame del controspionaggio russo. Ma i documenti a disposizione e le risultanze processuali tendono a escludere responsabilità di Mosca. Anzi, tra i documenti ufficiali del Kgb resi noti recentemente a Sofia, emergono piuttosto ingenuità e approssimazioni sulla lettura della situazione politica italiana negli anni Settanta.
Lo scorso 29 novembre, a Sofia, un organismo dal nome infinito e dall’acronimo impronunciabile – la Commissione per la divulgazione dei documenti e l’annuncio dell’affiliazione di cittadini bulgari con la Sicurezza di Stato e i Servizi di intelligence dell’Esercito nazionale bulgaro – ha “declassificato” e fatto circolare fra gli studiosi una serie di documenti sul terrorismo internazionale conservati negli archivi bulgari.
Una sorta di assaggio, perché a marzo verranno rilasciate altre 3mila pagine. Fra i documenti divenuti accessibili se ne trovano alcuni che riguardano l’Italia, e tra questi un memorandum del Kgb dell’Unione Sovietica sulle Brigate rosse. Un testo di dieci pagine dattiloscritte, redatto nel 1980 e inviato alle dirigenze dei servizi di sicurezza degli altri Paesi del Patto di Varsavia. Si tratta del primo documento del Kgb sul terrorismo italiano divenuto accessibile. Alla lettura del testo l’analisi si rivela povera, segnata da ingenuità e stereotipi ideologici, a discapito dei fatti:non viene affatto colta la complessità della situazione italiana nel 1979-80. Secondo il Kgb in Italia il terrorismo ha preso vita alla fine degli anni Sessanta perché in quel periodo si è avuto un “notevole rafforzamento delle forze politiche di sinistra,del Pci”. La destra, con il sostegno di Washington e con l’obiettivo di “imporre un regime autoritario alla guida del Paese”, si è appoggiata alle forze armate e a quelle di polizia, per “riportare indietro il Paese ai tempi del fascismo”. Per questo il Pci deve essere pronto alle situazioni di illegalità, al ritorno “alla lotta clandestina”. Invece il partito italiano “non è riuscito ad elaborare un programma costruttivo per un ulteriore sviluppo delle conquiste democratiche” e “ha rinunciato alle forme di lotta armata”. Questo “elemento di opportunismo nell’azione del Pci ha influito decisamente sull’ideologia e sulla posizione politica di coloro che erano pronti a dare la vita per il futuro socialista dell’Italia e li ha disarmati politicamente,spingendoli sulla via del terrorismo”. Con l’assunzione, verso la metà degli anni Settanta, di un “carattere di massa” del terrorismo, si è così manifestato “l’interesse di determinate forze politiche nell’usare il terrorismo al servizio dei propri interessi politici, indirizzarlo nell’alveo della lotta contro il Pci”. In questo senso si sarebbero mossi i servizi segreti, operando in maniera selettiva,reprimendo alcuni gruppi e lasciando mano libera ad altri. Secondo il Kgb l’utilizzo del terrorismo è legato ai cambiamenti nella scena politica italiana:infatti “si nota una spiccata regolarità nel fatto che il netto aumento del numero degli atti di terrorismo si verifica precisamente in quei momenti nei quali il Pci pone la questione di un ingresso dei comunisti nel governo”. Questo, in sintesi, il memorandum del Kgb. Ancora una volta le carte provenienti dagli archivi degli ex Paesi comunisti non hanno suffragato quella vasta letteratura fiorita in Italia che allude a regie straniere del terrorismo italiano,creando una vera e propria scuola di dietrologia. La documentazione fino ad oggi disponibile non fa certo pensare a una “eterodirezione” sovietica del terrorismo italiano, neppure per interposto Stato. E nello stesso senso vanno tutte le acquisizioni giudiziarie e le sentenze dei processi. Era comunque un’ipotesi legittima: in certi momenti la Guerra fredda è stata anche decisamente “calda”, combattuta da ambo le parti senza esclusione di colpi. In alcuni casi il nemico del mio nemico, non importa quanto poco presentabile esso fosse, diventava un amico. Non ci si poteva non interrogare sull’eventualità che l’Unione Sovietica e i Paesi del Patto di Varsavia avessero in qualche modo favorito il terrorismo italiano. Inoltre le indiscrezioni su una supposta pista cecoslovacca risalgono a oltre trentacinque anni fa. Ci fu una copertura,una collusione? Qualche autore ha addirittura sostenuto che in determinati momenti ci si trovò in presenza di una eterodirezione del terrorismo italiano, in particolare per le Brigate rosse, da parte del Kgb sovietico. Le vicende del nostro Paese e in particolare l’affaire Moro sono state oggetto di numerose rivisitazioni che, a seconda dell’autore, puntano l’indice verso un composito panorama di burattinai, dai servizi segreti nostrani più o meno deviati, a quelli di Mosca e Washington,senza dimenticare un piccolo ruolo per Israele. Il brigatista Mario Moretti sarebbe stato “una pedina della politica sovietica in Italia e sempre del tutto in mano alla Direzione strategica eterodiretta da Praga”. Insomma, la vicenda Moro avrebbe conosciuto una solida e precisa “regia cecoslovacco-sovietica”. I misteri affascinano il pubblico e godono di un certo successo editoriale, che purtroppo,però, non viaggia in parallelo alla ricerca della verità. Soprattutto queste tesi non sono supportate da prove adeguate. Resta pertanto valida l’osservazione di Victor Zaslavsky: “Finché non sarà disponibile una documentazione specifica in proposito, non sembra avere fondamento il tentativo di spiegare il terrorismo italiano come un fenomeno eterodiretto”. Che i cecoslovacchi avessero a che fare con le Br era convinzione condivisa in molti ambienti governativi. Lo stesso Aldo Moro, pur non avendone le prove, riteneva che il terrorismo italiano fosse sostenuto da alcuni Stati del blocco sovietico, “con ogni probabilità attraverso la Cecoslovacchia”, come ebbe a dire all’ambasciatore statunitense Richard Gardner il 5 novembre 1977. In un documento del Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza (Cesis), risalente alla fine del 1979, si legge che “a Milano e a Roma risiedono elementi italiani del servizio segreto cecoslovacco di contatto con i vari gruppi terroristici”. Questi selezionano persone, successivamente “avviate a veri e propri corsi paramilitari, in Cecoslovacchia o in altro Paese”, che al termine dell’addestramento “fanno ritorno in Italia”. L’attenzione verso la Cecoslovacchia fu comunque tale che nei giorni del rapimento di Aldo Moro si giunse a valutare seriamente qualcosa che avrebbe dovuto essere,tutto sommato, inconcepibile: l’allora commissario Antonio Frattasio, ascoltato nel luglio 1998 dalla Commissione Stragi,rivelò che alla Questura di Roma si era arrivati a pensare a un’operazione militare contro l’ambasciata cecoslovacca, e poco ci mancò che la sede diplomatica venisse presa d’assalto.La pista cecoslovacca era emersa alcuni anni prima.Quando, nel settembre 1974, a Pinerolo vennero arrestati i brigatisti Renato Curcio e Alberto Franceschini, l’allora capitano dei carabinieri Gustavo Pignero, del Nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, “rivelò” nel corso di una conferenza stampa che “Franceschini era arrivato qualche giorno prima da Praga”.Non era vero, l’inganno serviva a proteggere l’infiltrato Silvano Girotto, ma non funzionò. Per “coprirlo”,ha osservato Vincenzo Tessandori, venne “inviato alla magistratura un falso rapporto con la ricostruzione dei movimenti di Franceschini negli ultimi mesi”. Per questo,subito dopo l’arresto, La Stampa scrisse che Franceschini“era stato seguito in diversi viaggi” che “aveva compiuto in alcuni Paesi dell’Est”. A quel punto la falsa indiscrezione messa in circolazione iniziò a vivere di vita propria, trovando “riscontri” in confidenti di evidente dubbio valore e traducendosi in vari appunti del Servizio informazioni Difesa (Sid), il precursore del Sismi, come quello recante la data del 30 settembre 1974 (venti giorni dopo la conferenza stampa),proveniente dal Centro Cs (controspionaggio) di Bologna o quello dell’Ufficio D del marzo 1975, secondo cui Franceschini aveva soggiornato in Cecoslovacchia dal giugno 1973 al giugno 1974, ospite del campo di addestramento di Lidice, una località della Boemia centrale, a meno di 30 chilometri da Praga. Va comunque tenuto presente che già nel maggio 1973, nel corso di un battibecco al Senato fra il dirigente del Pci Paolo Bufalini e l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti,quest’ultimo aveva fatto un cenno alla Cecoslovacchia.Qualche anno dopo vengono apparentemente a confermare la pista cecoslovacca le rivelazioni del generale Jan Sejna, un uomo legato a Antonin Novotny, il capo del Partito comunista cecoslovacco, che dovette lasciare il posto a Alexander Dubcek. Più che defezionare, in realtà,Sejna fugge dalla Cecoslovacchia, riparando in Occidente per evitare un arresto per crimini comuni. Il 25 febbraio 1968, con la propria automobile, lascia il Paese. Via Jugoslavia arriva a Trieste e poi raggiunge Roma, dove chiede asilo all’ambasciata americana. Il 28 è già negli Stati Uniti. Un alto ufficiale che lo conobbe, alludendo alle sue posizioni politiche antiriformatrici, ebbe a dire: «Pensammo fosse scappato a Mosca». Dopo oltre dieci anni di vita a Rockville, una cittadina satellite di Washington, Sejna confida a Michael A. Ledeen di avere a suo tempo avuto informazioni su un certo numero di italiani addestrati nel suo paese dal Gru, il servizio segreto militare dell’Urss.Fra questi vi sarebbe stato anche Fabrizio Pelli.Dopo avere informato Francesco Cossiga, all’epoca presidente del Consiglio dei ministri, Ledeen nel 1980 divulga le affermazioni di Sejna in una serie di articoli pubblicati dal Giornale. Secondo Sejna Pelli era stato istruito a Doupov, una base di addestramento dell’aviazione militare cecoslovacca, nel biennio 1966-67. Il racconto di Sejna è poi ripreso in un rapporto del Sismi del marzo 1982.Nelle informative del Sid si è a lungo speculato su Pelli addestrato in Cecoslovacchia. Il giovane, dall’aprile 1973 al maggio 1974,avrebbe anche lavorato a Radio Praga e al Rudé právo, il quotidiano del partito ceco. Un’occhiata ai dati anagrafici avrebbe risolto molti problemi.Pelli nasce a Reggio Emilia l’11 luglio 1952. Nel 1966 aveva dunque 14 anni.Dalle indagini degli organi di polizia, dalle inchieste della magistratura e dalla pubblicistica disponibile conosciamo molte cose della sua biografia: precario, studente lavoratore, proprio per la sua condizione personale fece rapidamente la scelta della clandestinità. Nel periodo in cui si asseriva la sua presenza a Praga è sempre rimasto in Italia, nelle grandi città del Nord, tra Milano e il Triveneto, in particolare a Marghera. Peraltro non conosceva nessuna lingua straniera.Le “rivelazioni” di Sejna hanno invece più a che fare con un caso umano o clinico. Quando non ebbe più un ruolo di spicco da svolgere negli Stati Uniti, Sejna non si rassegnò alla naturale parabola della sua esistenza e iniziò invece a fornire “informazioni” che non trovarono mai alcun riscontro, suscitando invece grande clamore,da quelle sui prigionieri di guerra americani sottoposti a esperimenti medici, alla rivelazione del grande complotto moscovita per annichilire l’Occidente sommergendolo di stupefacenti. Anche le sue “rivelazioni” sull’addestramento di terroristi italiani in Cecoslovacchia appartengono a questo filone fantasioso. Chi scrive, nel 2006, assieme ad alcuni esponenti del Centro studi sulla storia dell’Europa orientale, ebbe l’opportunità di visionare a Praga carte sul terrorismo italiano che all’epoca non erano ancora declassificate. Si trattava di documentazione proveniente dal Primo direttorato del ministero dell’Interno. I fascicoli più vecchi raccoglievano richieste dall’Ambasciata d’Italia, che reagiva a indicazioni dell’autorità giudiziaria via ministero di Grazia e giustizia e chiedeva informazioni. Altri fascicoli collazionavano informazioni generaliste, provenienti da fonti aperte e da strutture dei servizi cechi,compresi gli agenti a Roma. Le relazioni interne indicano l’assenza di qualsiasi rapporto con le Br. Altra documentazione riguarda le “campagne anticecoslovacche” messe in atto dalla stampa italiana. Si tratta di fascicoli aperti nella seconda metà degli anni Settanta a partire dalla pubblicazione di articoli, ad esempio quelli del Settimanale. Non una sola carta d’archivio lascia intendere un legame operativo o pratico con i brigatisti.Ci sono ancora documenti che attendono di essere declassificati,ma fino ad oggi non è emersa alcuna evidenza sulla pista cecoslovacca o su una regia moscovita del terrorismo italiano. A dispetto di questo, continuano a proliferare le tesi dietrologiche.
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